UN GIOCO DI SPECCHI
Antonello Piana
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Il
colore delle statue cominciò ad illuminarsi di toni
sgargianti e la pietra a sbriciolare. Dapprima furono gli
occhi ad acquistare vita. Quelli della prima divennero
castani, quelli della seconda grigio-azzurri. La prima
statua si scrollò la polvere dai pantaloni, la
seconda i calcinacci dalle spalle.
Quello che da sempre ti volevo chiedere, disse Marx, è poi
vero che ti scopavi Helene Demuth?
Engels lo guardò e poi sollevò il dito. Eravamo
d'accordo di non parlare, Marx! Di intenderci in silenzio.
Ma si potrà domandare dopo piú di cento anni,
disse Marx, non ho fatto altro che pensarci su tutto il
tempo.
Peter
B. |
Un
giorno Peter B. mi apparve in sogno per pochi istanti, sedevamo
insieme sulla panchina di un giardino pubblico, poco distante
la statua di un orsetto di pietra, entrambi con i gomiti sulle
ginocchia, fumavamo le sue sigarette una dopo l'altra senza
parlare. Era una tiepida giornata di sole, io indossavo la
mia sbrindellata giacca di pelle, lui un trench-coat di colore
chiaro ma indefinibile.
Quando mi risvegliai non seppi cosa pensare. I miei sogni a cose
normali si volatilizzano in pochi minuti, subito dopo il risveglio
tendo a non rimuginare affatto sul sogno appena concluso - ovvero
che sembra appena conclusosi, in realtà è noto
che raramente si sogna poco prima del risveglio -, e per questo
motivo la sera sono solito legarmi un fazzoletto al dito prima
di addormentarmi. Al risveglio poi mi capita raramente di volgere
la mia attenzione al fazzoletto legato al dito, cosicché l'esito
finale dell'esperimento si rivela regolarmente fallimentare. È piú facile
che brandelli di immagini di cui non ho coscienza mi ritornino
casualmente davanti agli occhi nei momenti meno appropriati e
con gli effetti piú insoliti per i sensi.
Ad ogni modo, quella mattina mi ricordavo del sogno notturno
in maniera straordinariamente vivida, con la bizzarra consapevolezza
di non stare dimenticandone nemmeno uno stralcio. Non avevo voglia
di mettermi immediatamente al lavoro, da giorni non uscivo di
casa che per fare spesa, per cui decisi di onorare lo strano
sogno andandomene a zonzo per qualche ora a mente fresca.
Era una tiepida giornata d'autunno, avevo disceso la Prenzlauer
Allee fino alla Raumer, alla Duncker a sinistra, Danziger a destra,
le gambe si muovevano per conto loro, sembrava che avessero una
meta prefissa che non riuscivo ad intuire, tuttavia non mi preoccupai
piú del lecito né mi provai a timonare il senso
della marcia; era una giornata iniziata irrazionalmente, mi sembrava
quasi naturale che continuasse cosí.
Prima
di quel sogno avevo visto Peter B. solo una volta. Se avessi
potuto immaginare che non ce ne sarebbe mai stata una seconda,
certamente avrei trovato il coraggio di rivolgergli la parola.
Sedeva nel caffé di una grossa libreria ad un tavolo
d'angolo, quasi tutte le sedie, nonché tutti i tavolini,
erano già occupati da una piccola folla che ciarlava
per ingannare l'attesa. Sembrava che Peter B. osservasse i
convenuti ruotando pigramente la testa per la sala, ma il suo
sguardo era assente. Io ero capitato sul posto casualmente
e mi sentivo fuori luogo.
Mi ero trasferito in città da poche settimane, si avvicinava l'inverno
e non avevo in tasca che pochi spiccioli. Grazie a una conoscenza occasionale
avevo avuto la fortuna di trovare una stamberga a poco prezzo sulla Stargarder
Strasse. La stagione rinfrescava e nel mese di ottobre avevo cominciato a bruciare
i primi pezzi di carbone, non senza l'intima soddisfazione del piromane, nella
stufa di pietra che si trovava in un angolo dell'unica stanza del mio appartamento.
Dopo pochi giorni però mi ero reso conto che la montagnuola di carbone
che avevo trovato in cantina a quel ritmo si sarebbe esaurita prima di natale,
cosí avevo deciso di riservare l'esile scorta per le giornate ben piú fredde
che sarebbero presto arrivate. In considerazione del fatto che le serate in casa
non erano piú gradevoli come prima, negli ultimi tempi avevo pensato bene
di uscire piú spesso e frequentare le manifestazioni culturali riscaldate
e gratuite che si tenevano nei dintorni.
Era inevitabile che si trattasse nella maggior parte dei casi di quell'evento
cosí insolitamentente - per un italiano - ricco di tradizione e di seguito
nei paesi germanici che è la lettura pubblica.
Arrivai
all'altezza del Prater. La Kastanienallee è una strada
movimentata a tutte le ore del giorno, mi veniva da immaginare
che nel Biergarten, che in quella stagione aveva i giorni contati,
Peter B. amasse godere il tepore estivo davanti a un caffé.
Dall'altra parte della strada, a breve distanza dalla galleria
dove gli schiavi un tempo facevano baccano, si trovava l'Antiquariat
am Prater, una delle librerie antiquarie piú interessanti
del quartiere. I sobri scaffali di legno raggiungevano un soffitto
molto alto, cosicché si rendeva necessario l'utilizzo
di una malferma scala a pioli di legno sulla quale avevo già barcollato
piú volte in cerca di rarità bibliofile a buon
mercato, come i preziosi volumetti di poesia d'avanguardia
della Janus Press di Gerhard Wolf.
Davanti alla vetrina, mi ricordai improvvisamente di un libro
che avevo preso in prestito dalla biblioteca del quartiere molto
tempo prima, mi ero spesso ripromesso di acquistarlo, principalmente
perché desideravo averlo a disposizione in qualunque momento
- può apparire strano, ma sono pochi i libri che possiedo,
e molti meno quelli di cui avverto un bisogno ricorrente: i racconti
di Cortázar in edizione completa Alfaguara e qualche altro.
Il libro che cercavo si intitolava "Ein Spiel von Spiegeln" (Un
gioco di specchi), per quanto potessi ricordare, un volume di
formato piuttosto grosso, quasi quadrato e dalla copertina cartonata.
Si trattava di un'antologia di poesie di cui non ricordavo il
nome del curatore.
Confidavo che almeno una copia del libro potesse giacere sepolto
tra le caterve di libri ammassati nella prima ala della libreria,
quella in cui regnava un disordine stupefacente - il fatto che
il vano fosse consacrato a magazzino interdetto al pubblico mi
sembrava solo una mezza giustificazione per quel pandemonio.
La libreria era specializzata in prime edizioni non troppo antiche
per essere considerate rarità antiquarie, ma abbastanza
pregiate da non potersi trovare presso un comune rigattiere.
Si trattava proprio di quel genere di libri a cui apparteneva
l'oggetto delle mie brame.
Fortunatamente il giovane gestore della libreria disponeva sul
suo computer di un catalogo elettronico, e fu cosí che
provammo a rintracciarlo insieme. Sembrava esistere una copia
del volume tra le giacenze del magazzino, per cui il giovane
antiquario mi invitò a cercarlo insieme a lui ripartendo
equamente le sterminate zone di ricerca.
La
notte successiva sognai nuovamente Peter B., ma quella volta
si trattava di un sogno meno limpido e piú articolato
di quello precedente. Avevo suonato il suo campanello sulla
Kuglerstrasse, ero salito per le scale scricchiolanti senza
riuscire ad accendere la luce, evidentemente l'impianto elettrico
era fulminato. Fuori era notte fonda, i bar erano già chiusi
ma la pulizia delle strade non aveva ancora cominciato il suo
turno. Mi sembrò cosa naturale passare a trovarlo. Del
sogno non riuscii a ricordare le nostre conversazioni, che
pure ero certo che si fossero tenute, ma di tutto il resto
serbai un ricordo piuttosto vivido. Mi sedetti mentre lui preparava
il caffé, io avevo voglia di qualcosa di alcolico, ma
sapevo senza bisogno di chiederlo che in casa sua non ne potevo
trovare. Mi trovavo a disagio nella sua linda cucina con un'aria
d'altri tempi, col lavabo di plastica e il piccolo boiler per
lavare i piatti infisso nel muro.
Ero consapevole che la sua compagna dormiva nella stanza adiacente,
cosicché lo invitai ad uscire. Lui non reagí all'invito,
guardava fuori dalla finestra dandomi le spalle con la sua tazza
in mano; seppure fosse una notte senza luna riuscii a intravedere
un albero oltre la sua sagoma, aveva un tronco diritto e agile
e fronde ampie, pensai che si trattasse di un ippocastano o di
un tiglio.
Sembrava proprio che Peter B. non avesse affatto voglia di uscire.
Grazie
al fatto di conservare un vago ricordo della fisionomia del
volume, fui io a scoprirlo nella sezione riservata ai libri
di storia dell'arte: "Ein Spiel von Spiegeln", sottotitolo
Katalanische Lyrik des XX Jahrhunderts (Lirica catalana del
XX secolo), con 7 disegni a colori e tre collages di Antoni
Tàpies. A cura di Tilbert Stegmann, editore Reclam,
Lipsia 1987.
Si trattava di un volume elegante e quasi lussuoso, malgrado
l'austerità tardo-socialista sopravvissuta nella qualità della
carta e nel grigio della cornice, per cui pur contrattando uno
sconto col giovane libraio dovetti sborsare una cifra che non
mi lasciava indifferente.
Il volume conteneva, oltre alle magnifiche illustrazioni dell'artista,
una scelta dei poeti catalani piú rappresentativi del
secolo, i miei preferiti erano i modernisti, i piú audaci
nelle forme, Brossa e Salvat-Papasseit, ma anche i classici del
simbolismo erano capaci di risvegliare in me associazioni e ricordi
che credevo dimenticati. Quella lingua farcita di parole tronche
aveva il sapore dei cortili polverosi e sterrati della mia infanzia,
delle estati riarse e silenziose negli oliveti inselvatichiti
della periferia. Compare un uomo e si ficca in una grotta. Una
donna attraversa e svolta a destra. Passa in volo un uccello
e se ne va. El cel es va enfosquint, i em sembla que tindrem
pluja. L'ammirazione trattenuta per una bambina vestita poveramente,
non ne ricordavo piú il nome, aveva la mia stessa età,
ma con quei suoi occhi materni e luccicanti sapeva difendere
il fratellino dagli altri marmocchi nel cortile della chiesa;
gli anziani pescatori del ghetto che arrotondavano la magra pensione
ricucendo le reti sulla soglia di casa, il vecchio ospedale disseminato
di siringhe usate, le balaustrate di marmo di una chiesa sconsacrata
e in rovina, uniche testimoni dei passati fasti.
Il
romanzo recentemente uscito da cui Peter B. avrebbe letto era
di dimensioni ordinarie, con copertina rigida e sovraccoperta
blunotte. Davanti al bancone del bar era stato approntato un
tavolino con una pila di libri e una sedia per gli autografi
e le dediche di rito a fine lettura. La lettura ebbe inizio
con un quarto d'ora di ritardo. La libraia introdusse brevemente
lo scrittore, traduttore dalle lingue romanze, autore di libri
per l'infanzia, drammaturgo e regista. Peter B. prese la parola
e senza indugi cominciò a leggere un brano che suonava
come l'incipit. Aveva una voce piuttosto profonda e un'inflessione
lievemente dialettale, anche se a quel tempo non sapevo distinguerne
l'origine. Dopo la lettura del brano Peter B. prese la parola
spontaneamente per spiegare che il romanzo raccontava le disavventure
del becchino siciliano Gianluca Cardinale e del suo pettirosso
parlante e alcolizzato Giorgina in trasferta a Berlino. Il
secondo brano introduceva i personaggi nella metropoli tedesca,
alle prese con apparizioni tipiche per il microcosmo della
Schönhauser Allee, la strada che evidentemente fungeva
da epicentro ambientale della narrazione, e in cui non da ultimo
si trovava anche la libreria dove sedevamo.
Andiamocene
un po' in giro, dissi io la notte successiva, e lui stavolta
acconsentí. La Schönhuser Allee è il centro
segreto del mondo, disse una volta in strada con tono rivelatorio,
me lo fece capire una mia antica fidanzata che non aveva il
privilegio di potervi abitare. Queste curve sinuose, aggiunsi
io, le chiese nascoste, i caffé, quest’aria da
boulevard in decadenza, i condomini e i cimiteri, la strada
che lievemente si inerpica, potrebbero essere davvero il centro
di qualcosa. Arrivammo ben presto all'altezza della stazione
della metropolitana, al riparo delle impalcature di ferro dormiva
qualche barbone ricoperto di giornali, spirava un vento freddo
che scoraggiava le passeggiate.
Gli alcolizzati rincasavano compiendo i loro improbabili slalom,
i marciapiedi del quartiere non sono favorevoli alle sbronze,
si inciampa facilmente tra le lastre dissestate dai decenni,
ma l'equilibrio degli ubriachi, fortificato dall'esperienza, è meno
instabile di quanto sembri a prima vista: se ne è forse
mai visto uno che cade per terra? Può darsi che le autorità si
astengano dal restaurare i marciapiedi proprio per scoraggiare
l'assunzione di alcoolici, disse Peter B., ma è un teorema
difficile da dimostrare.
La metropolitana che disegna le sue curve. Nella piazza consacrata
a Rosa Luxemburg è ancora sotterranea, cosí come
in Senefelderplatz. Dopo il cimitero ebraico, all'altezza della
vecchia birreria, comincia a risalire, sulla Danziger Strasse,
ex Dimitroff, diventa soprelevata, dopo la Bornholmer riprende
a scendere, alla stazione Vinetastrasse è di nuovo completamente
sotterranea. Ci fermiamo a prendere qualcosa di caldo in un locale
dal nome esotico e sempre aperto, di cui Peter B. sembra conoscere
il proprietario. Peter B. fuma prima, durante e dopo il caffé.
Dopo pochi minuti siamo nuovamente fuori e al freddo, albeggia
timorosamente. Sulla strada illuminata in modo discreto scorrono
rade automobili, i primi operai, perlopiú la raccolta
della spazzatura, la pulizia delle strade o qualche volante della
polizia. Avverto ora che il suo sguardo si è appesantito
di ombre. Le vetrine abbandonate e impiastrate dei negozi sfitti,
l'ordinatezza della disillusione si riflette nei suoi occhi sfuggenti.
Stenta a riconoscersi nel suo prossimo, se mai in precedenza
ne fosse stato capace.
Ci sono diversi modi di rendersi solitari, afferma, un cane a
cui si può rivolgere la parola senza paura che risponda,
i pattini o una bicicletta, con cui si può superare l'insostenibile
lentezza dell'essere, o una radiolina con gli auricolari, grazie
ai quali ci si può proteggere dai rumori ambientali e
dalle conversazioni per strada. È giunta l'ora di risvegliarsi.
Lo
sguardo di Peter B. si soffermava spesso su di me, la qual
cosa mi lusingava e mi inquietava a un tempo, poiché sospettavo
che lo scrittore avesse notato la bottiglia che tenevo nella
tasca interna della giacca, da cui di tanto in tanto bevevo
un sorso cercando di non darlo a vedere intorno. C'era una
vena di complicità nel suo sguardo, che veniva confermata
dal tono del suo discorso. Quasi a voler giustificare le sue
scelte narrative raccontò che i primi stranieri arrivati
nel quartiere erano stati proprio degli italiani, i quali nel
corso della seconda metà dell'ottocento si erano insediati
nell'area piú o meno circoscritta tra la Pappel- e la
Schönhauser Allee. Fui sul punto di sussultare, poiché anch'io
mi ero trasferito da poche settimane proprio in quel quartiere.
Sembrava che si rivolgesse a me direttamente, come se fossimo
seduti da soli al medesimo tavolo. Al piú tardi da quel
momento cominciai a sospettare di essere la pedina di un gioco
di cui non riuscivo a scorgere il manovratore. Ad ogni modo,
Peter B. continuava ad osservarmi ad intermittenza.
"
I primi italiani arrivarono con orsi, cammelli, cani e scimmiette
calzate e vestite. La maggior parte era costituita da suonatori
di organetti a manovella, la prima fabbrica di organetti sorse
nel 1828 e resistette sulla Scönhauser Allee sotto il nome
Bacigalupo fino al 1978. Gli italiani erano soliti affittare
un organetto all'osteria Graffigna, sulla Schönhauser Allee
74, e fare il giro dei cortili dei dintorni con le loro scimmiette.
Il quartiere era sovraffollato di proletari e disperati di ogni
risma, vivevano ammucchiati negli alloggi stantii e insalubri
che davano nei cortili interni dei palazzi, e i suonatori d'organetto
rappresentavano uno dei pochi momenti di svago della giornata,
non era raro che si ballasse al ritmo della musica.
A partire dagli anni novanta dell'ottocento agli italiani venne
ritirato il permesso di esibirsi, che divenne prerogativa esclusiva
dei tedeschi. Da quel momento passarono a lavori manuali piú pesanti
o saltuari, o si arrabattarono come venditori ambulanti, ma continuarono
a ritrovarsi nel ristorante "Genua", sulla Schönhauser
Allee 51, non lontano da qui, quasi all'altezza dell'Eberswalder
Strasse".
Con
il libro sottobraccio, percorsi l'Eberswalder fino al Mauerpark
e mi distesi sull'erba. Peter B. aveva tradotto di Carles Riba,
un classico dell'ermetismo, la poesia Mirall (Specchio), che
probabilmente ispirava il titolo dell'antologia. La lirica
nella versione di Riba si concludeva con questi versi:
(...) Dubbi d'amore/ mi allacciano all'orrore/ di essere
soltanto perché mi specchio/ e contro l'invisibile muro/ sapere
e soltanto rifletterlo/ due, e nondimeno: chi è il puro
e chi l'impuro?
L'antico tema dello sdoppiamento allo specchio racchiuso in metafore
laconiche e ambigue. La versione di Peter B. era piú musicale
e meno asciutta dell'originale; nell'accresciuta armonia, piú problematica:
(...)"I dubbi d'amore perseverano/ legandomi in dolci nubi/ io sono poiché mi
specchio/ e cosí invisibile davanti al muro / riscopro io nel riflesso/
sono due, nondimeno: chi non vero e chi vero?
Evidentemente la scelta di *vero* (wahr) in luogo di *puro* (rein) nella traduzione
tedesca si poteva far risalire in primo luogo alla necessità di trovare
una rima, seppure non perfetta, a *unsichtbar* (invisibile), mentre Riba aveva
gioco facile con la rima *mur/impur*.
Eppure la chiusura di questo bel poema non poté fare a meno di rimandarmi
con la memoria ad una poesia di Peter B. che avevo letto tempo prima:
|
"KLEIST
Un assassinio sul Wannsee
Quiete Henriette.
Senti il vento nella mia testa.
Vi è dentro un buco ne
Hanno fatto un culo
Trovare la pace con la Prussia
Urla: una metà di guerra
La guerra dichiarò l'altra
Metà per la pace in testa:
Sparare allo stato con pallini di carta
Io sono due: Henriette.
In mezzo vi è un buco."
|
|
Mi
sembrava che quello scivolamento semantico nella traduzione
del poema catalano avesse trasformato la riflessione (in tutti
i sensi) di Riba nella scissione di Kleist: non piú un
inquieto gioco di specchi (per quanto inquietante, comunque
un gioco), bensí un‘autentica dissociazione -
letteralmente senza fondo - del poeta nei confronti di una
realtà sordida e ineffabile.
La
lettura si concluse piuttosto presto, l'autore rispose ad un
paio di domande insulse, firmò una decina di libri,
e si fermò a chiacchierare con i suoi lettori. Aveva
un modo diretto ma non invadente, da lontano sembrava che discutesse
con amici stretti, malgrado non si trattasse invece che di
perfetti estranei. Me ne restai in disparte per pochi minuti,
poi mi dileguai alla chetichella come un ladro, non avendo
voglia di mescolarmi a quella cerchia di bolsi ammiratori in
cerca di autografi. Mentre cominciavo a scendere le scale,
ci scambiammo un ultimo sguardo e ancora una volta sembrò che
non ci fosse niente da spiegare, tutto sembrava lampante e
privo di senso nella fugacità dell’incontro senza
parole.
Da allora le letture di Peter B. si sono definitivamente concluse,
cosí come le nostre passeggiate notturne. Tuttavia in
un periferico interstizio spazio-temporale persevera un’improbabile
nostalgia, come un caleidoscopio di possibilità aperte.
La domenica d'inizio autunno, per esempio, ricordava il momento
in cui si preannuncia una sentenza già scritta. K. guidava
in modo prudente, era comprensibile che avesse paura, seppure
il traffico fosse estremamente rado. Arrivammo in vista della
chiesa, svoltammo a destra e poco dopo giungemmo a destinazione:
Amalienpark, una specie di Tarussa berlinese, ma in pieno centro,
si fa per dire, il Majakovskij Ring a un tiro di schioppo.
Dietro la libreria doveva trovarsi, se ben ricordavo, la meno
celebre galleria. I palazzi signorili e da sempre borghesi dipinti
di giallo crema, l'erba curata e protetta dal ferro. La galleria
occupava il seminterrato; l'artista, la compagna di Peter B.,
non era presente, c'era solo un'impiegata e oltre a noi nessun
visitatore.
Su sfondo nero la testa rotonda, il naso largo e gli occhi che si perdono nel
vuoto, centouno teste per due fratelli. Non esattamente come me lo ricordavo
io, erano i lineamenti dell'intimità che spuntavano fuori, l'oscurità veniva
alle luce nei contorni del viso sfuggenti e distruttivi. I toni marini di alcuni
ritratti, quei colori portoghesi su cui Peter B. ironizzava bonariamente, ma
come lui sempre in fuga, ora chiari ora scuri, da una definizione chiusa del
senso. Meno violenti dei colori del fratello, non meno schietti, solo piú schivi.
L'autodistruzione fisica non è una scusa, tantomeno una prerogativa morale
da cui attingere, avrebbe detto. Selbstzerstörung piuttosto come l’atto
di spalancare le proprie vene al mondo, la lezione estrema ma mai abbastanza
eccessiva imparata alla scuola di Artaud. Estetica della carne, della tortura,
intesa come esperienza e non come dolore. La delusione che filtra da ogni anfratto,
ti rosicchia lentamente con l'impotenza, e l'inerzia dei pomeriggi seduto sulla
poltrona o in piedi davanti alla finestra. Vi è dentro un buco, ne hanno
fatto un culo. Quello si vedeva nelle centouno teste.
Il dialogo è necessario, o finiamo ognuno a monologare come gli ubriachi
o i matti, aveva detto una notte, le rughe come solchi, accennate in ogni quadro
con una pennellata vaga ma impertinente. Il naso abnorme come una soglia sul
mondo (il fratello preferiva la pelle, metafora della frontiera e del baratro,
ma nei quadri è spesso oscura, impalpabile).
Alle pareti qualche lirica come un sottofondo di accompagnamento, ovvero a riprova
della vaghezza del tentativo, o della sua funzione terapeutica, pagine di diario
strappate male, senza cura.
K. percorre le stanze senza fretta, di fronte al nero si tiene la pancia, lei
sí che intravede una scoperta, un approdo qualunque invisibile ai piú,
per quanto stremati.
La
mattina successiva Peter B. andò in cucina, mise su
un caffé ben forte e guardò fuori dalla finestra.
Dopo il nostro ultimo incontro non era riuscito a prendere
sonno, in verità non ci aveva neppure provato. Ricordò in
terza persona un giorno d'estate, come se si trattasse di un
estraneo, correva l'anno 1976 e il giovane Peter, un adolescente
e insofferente membro della federazione giovanile del suo paese,
durante la parata davanti alla testa di Karl Marx che si teneva
nell'omonima città, si consentí di sfilare davanti
alle autorità non con la camicetta azzurrina d'ordinanza,
ma piú libertariamente a torso nudo.
Diciassette anni piú tardi gli venne da pensare a quel
gesto innocuo e irriverente poco prima di un comizio davanti
alla medesima testa di pietra - il muro era caduto da poche settimane,
e la maggior parte degli intellettuali tentava illusoriamente
di incanalare la protesta in uno sforzo utopico, in una vera
rivoluzione.
Aveva appena raccolto l'ovazione della folla affermando che finalmente
i burocrati sarebbero dovuti andare a lavorare, ma continuava
a sentire il peso di quella testa dietro le sue spalle, e quando
rivolto alla folla la indicò col dito dicendo "Ma
questa testona resta dov'è, e, porca miseria, forse ora
si potrebbe cominciare anche a prenderla sul serio", il
giubilo si tramutò istantaneamente in una pioggia di fischi
e urla. Il proletariato con coscienza di classe e un'élite
alla sua testa, pensò seguendo la traiettoria di un uccellino
che si involava sopra il tetto di fronte. Fu quella probabilmente
la fine di una promettente carriera di tribuno.
Sul castagno aleggiava un silenzio spettrale. Riflettendo sull'essenza
dell'identità riconobbe che qualcosa di simile in lui
non esisteva piú al cento per cento. Mentre osservava
il suo viso nello specchio del bagno, comunicò all'uomo
che aveva di fronte che quel giorno non lo avrebbe rasato.
Antonello
Piana, nato ad Alghero, in Sardegna, il 17-06-1974, vive attualmente
a Berlino. È laureando in letteratura russa e tedesca con
una tesi su Paul Celan e si occupa in particolare di teoria della
traduzione letteraria.
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