LA
MIA MENTE SELVATICA:
passi verso un’autobiografia
Patricia Foster
Oggi sono presa dal
desiderio di pulirmi strofinandomi a fondo, di staccare il passato
dal gancio come fosse un capo d’abbigliamento che potessi
disinvoltamente, incurantemente far cadere per terra. Tali
pensieri, lo so, sono quelli che compongono i desideri, i sogni ad
occhi aperti di primo mattino, le depressioni e le sconfitte.
Tuttavia, quando sfiorano la mia vita con la loro maliziosa faccia
stupida, la loro depravata dolcezza, mi viene voglia solamente di
fuggire. Immagino che sto saltando giù dal letto e che mi sto
precipitando verso la drogheria come un maniaco, per comprare
dentifricio e detersivo. O che sto rasando le mie gambe lisce come
un osso, indossando un fresco vestito primaverile, decidendo il
senso ultimo della mia vita. Se solo il passato mi liberasse e mi
lasciasse in pace, giuro che sarei felice, serena. Mentre penso a
questo, il picchio fuori della finestra inizia il suo schiamazzo
chirurgico, un ragno si arrampica lentamente sul muro liscio del
bagno, ed io so che non c’è via d’uscita, perché la natura
della conoscenza è legata a quella della vita.
Ed è in questo modo che
inizia il racconto dell’autobiografo, un trapezista che sfiora
con leggerezza l’aria senza una rete romanzesca. E’ questa
pura vanità? Diserzione? Uno schiaffo in faccia alla fantasia? O
è un indizio della riluttanza dei lettori moderni all’arrendersi
all’incredulità?
Perché uno scrittore moderno cerca di collegare tra loro quei
brandelli di riflessione che a malincuore chiamiamo "una
vita"? Vi assicuro che è un momento rivoluzionario nella
storia letteraria. Posso garantirvi che la nostra cultura detta un
copione interiore da cui prendiamo le nostre vite, e che la nostra
tribù letteraria risponde semplicemente a questo copione. Posso
dare per certo che la narrativa è diventata stentata, troppo
scarsa e impacciata per soddisfare il nostro gusto ingordo per la
rivelazione. Eppure ciò che qualsiasi autobiografo desidera
segretamente è raccontare "come iniziò per me".
Quindi, fatemi dare libero sfogo alla mia vita di scrittrice e
permettere alla corrente della memoria di scorrere violentemente.
Fatemi raccontare una storia, non solo la storia di un genere, ma
quella di una mente, ciò che ho soprannominato la Mia Mente
Selvaggia.
I
Voglio iniziare
dal principio, proprio come in un racconto in vecchio stile, per
immergervi nel periodo in cui vivevo una bizzarra esistenza
isolata in quella che è la più psicotica delle città, Los
Angeles, California. E’ qui che nascono le fantasie, dove lunghe
limousine scivolano striscianti attraverso il traffico come vermi
che scavano nel fango, dove pattinatrici corrono impetuosamente
giù per il marciapiede, con le frange dei loro bikini che
svolazzano nella soffice brezza oceanica, dove senzatetto dormono
sotto la mia macchina, con le loro gambe che spuntano fra le gomme
posteriori come fragili steli. Ed è qui che voglio che m’immaginiate:
una giovane donna di vent’anni passati che guida a tutta
velocità sull’autostrada per recarsi al suo impiego interinale
di word-processing nel centro di L.A. Come nei precedenti impieghi
non farò amicizia con nessuno, pronuncerò unicamente cliché
inevitabili, mangerò da sola in mensa, e poi mi metterò un
cartello dietro la schiena che dice "scrivo a macchina per le
masse". E’ un’esperienza soffocante e d’intorpidimento,
e, tuttavia, faccio questo per giorni, settimane, qualche volta
anche mesi senza mai uno strappo alla routine, ogni cellula del
mio corpo grida per essere liberata, per far intervenire l’agenzia
del lavoro interinale e per farmi sgattaiolare via verso un altro
cupo incarico. Però questa è solo una parte di me. La persona
che non vedete in ufficio, di sera siede alla sua macchina da
scrivere, pronta come se fosse sull’apice di una scoperta, che
scrive racconti su carta sottratta al suo impiego diurno
furtivamente come uno scoiattolo.
Di notte la brezza oceanica colpisce le tende velate, e l’odore
di zolfo e gelsomino attraversa le porte aperte, diffondendo
profumi soavi. Sono seduta nella mia stanza che fa da salotto e da
cucina ed ascolto il ruggito dell’oceano Pacifico, le onde che s’infrangono
contro la spiaggia e che improvvisamente si ritirano come una mano
che allenta la presa. Per molti giorni è l’unico suono che
voglio sentire, la mia mente rimane legata a questo ritmo erotico
e alla sua esalazione violenta. Durante questo periodo il mio
mondo è riempito da dicotomie ben delineate: una vita diurna di
duro lavoro e quella notturna di fede sperimentale; una vita
notturna elevata dalla voluttuosità del mare. Qualche volta
quando mi areno in una storia, incapace di creare la prossima
scena della vita del personaggio, vado sul tetto e fisso l’oceano
mentre corre senza tregua verso la spiaggia e poi d’improvviso
si ritira risucchiato come da un’enorme bocca assetata. Fuori il
cielo è una calligrafia di stelle e la notte è buia come l’interno
del mio armadio. In sere come queste credo quasi di percepire la
curva dell’universo e la promessa della speranza. Ma se rimango
lì sufficientemente a lungo, inevitabilmente rifletto sul fatto
che questa - questa vita – non è quella in cui dovevo
finire: riuscendo a tirare avanti a malapena, senza un impiego a
tempo pieno, nessun conto corrente né mutuo, ancora meno un’assicurazione
contro le malattie o un matrimonio. La verità però, è che ero
stata avviata al successo, destinata ad essere una vincitrice nei
college ed Università, con assistenti ed istruttori e lodi e
premi. Ovviamente, mi sono alzata dal tavolino, prima che l’operazione
fosse portata a termine. Qualche angoscia misteriosa mi ha fatto
slacciare il mantello del successo e sgattaiolare silenziosamente
fuori dalla stanza, contenta di essere per un po’ un fante, un
subordinato, mentre imparavo il mio mestiere notturno. Eppure
questo fallimento non era né favorevole né programmato, era solo
una coreografia dai movimenti stilizzati. Più simile all’improvvisa
esplosione dei battiti d’ala degli uccelli che fuggono da un
albero, trasportando nel becco ramoscelli, foglie e frammenti.
Lasciai un mondo – il mondo della realizzazione – ma portavo
con me l’impronta torbida del successo, al sicuro nella bocca.
Lasciai perché avevo scoperto i racconti.
La sera mi curvo sulla scrivania, come un nuotatore subacqueo che
percorre le acque nere fiduciosamente, senza aver bisogno di
fiato. Credo, forse ingenuamente, che scrivere narrativa possa
illuminare l’oscurità, infrangere gli umani confini ristrettisi
ad una miserrima fessura. Ogni notte mi siedo alla macchina da
scrivere ascoltando il ronzio nella mia testa, vedendo un
personaggio mettersi un cappello con le violette che gli tremano
sulla testa, mentre un altro bacia l’interno del palmo della
mano cercando il modo migliore per farlo. E’ così? La bocca
stretta, leggermente increspata... no, no, la bocca aperta, tenera
e raggiante. Ecco Dade che fissa il deserto, un sorriso
malinconico addolcisce il suo triste viso butterato, mentre a poca
distanza da lui, le erbe inquiete si sparpagliano nel caldo vento
brillante. Ecco la moglie del dottore che cammina davanti ai miei
occhi come un’aureola, uno spettro del desiderio che non smette
di girare, le braccia aperte, la sua camicia da notte che si alza
e si abbassa mentre passa sotto il salice.
Sebbene mi delizio con questi personaggi, c’è una parte
essenziale di me che rimane sconcertata e distaccata. Come se il
mio amore per loro mi portasse avanti fino a colpire una barriera,
una grata, qualche cosa sbattuto violentemente e saldamente contro
la mia immaginazione.
Nelle mie storie, scrivo esclusivamente del Sud dell’America,
stringendo a me quella regione come se potessi scrivere solo col
profumo della sua impronta sulla pelle. Non oso scrivere di me. Mi
affido invece alle caratteristiche eccentriche di una cultura
provinciale, creando personaggi gotici alla Faulkner, Welty e alla
O’Connor. In principio questo mi piace – Perché non un
dottore con una gamba di legno? Perché non una direttrice che si
preoccupa solo dei cappelli? Perché non una figlia nata in una
barca da fiume attraccata a "The Narrows"? – però
col tempo questa costruzione mi appare come un ostacolo, un
trucco, qualche cosa che mi tiene rinchiusa, inscatolata, rigida,
quando invece ciò che desidero più di ogni altra cosa è
sciogliermi dai legami, tratteggiare la mia immagine sulla pagina.
Dopotutto, sono nata in una piccola città dell’Alabama da
genitori che volevano solo diventare borghesi, avere mutui,
Cadillacs e gli sformati della domenica, e sento pesantemente il
bisogno di spiegare cosa mi sia accaduto laggiù. Spiegare quell’ansia
misteriosa che mi ha rapito al futuro che loro desideravano, da
ciò che consideravo una vita prevedibile. Capire ciò che tutti
vogliamo comprendere: cosa si senta ad essere se stessi, a passare
sotto la propria pelle, sventare i sensori ufficiali e portare
finalmente alla luce il cuore affamato. Ma come si riesce a fare
questo? Come posso scrivere ciò che ancora non riesco a vedere?
Non posso. Quindi indosso un vestito di seta blu e mi precipito al
lavoro presso gli Studi Paramount, Universal o Colombia dove batto
a macchina fitti contratti e lettere di rifiuto e appunti
arrabbiati, dove mangio yogurt e mele dai distributori automatici
mentre il mio capo se la prende con gli uomini della manutenzione
"Spic", per le femministe che "guastano il
numero", coi nuovi balletti musicali, "quel maledetto
John Travolta e Olivia Newton John". Non mi considera per
niente. Assomiglio troppo alla mobilia, neutra e provvisoria. Ma
mentre si sfoga, io lo guardo con insofferenza – non per le sue
opinioni politiche – ma perché sono impaziente che se ne vada a
pranzo per lavorare di nascosto al mio nuovo racconto.
E, tuttavia, quella sera quando esco sul tetto, con il racconto
nuovo stretto con disperazione nella mano, sono sia confusa che
sconvolta perché il mio personaggio Kay non si muove, non mi dice
ciò che pensa, né ciò che vuole, neppure se preferisce le uova
strapazzate o quelle fritte. Si appiglia invece a qualche formula
trita e ritrita da personaggio prevedibile e ad un linguaggio
dialettale. Allora chiudo gli occhi cercando di evocarla e ancora
una volta, nella mia testa la grata vuota si chiude con fragore.
Forse quello che mi manca è il vero racconto da narrare. Forse le
mie storie sembrano tese ed innaturali perché non ho ancora
trovato la loro essenza, la loro anima. Devo togliere magari,
ancora un altro strato di pelle. Ma come cominciare? Come fa uno
scrittore?
Durante questo periodo una mia amica scrittrice affronta un
periodo difficile della sua vita e parte improvvisamente per il
Montana, un posto a lei estraneo quanto la luna. Viene dall’Est
dell’America, con le sue scuole private e i gatti Persiani e
prati curati da manicure, mentre il Montana è tutto cowboy
polverosi, cavalli ed orizzonti senza fine. E, tuttavia, è qui
nel Montana, che la sua scrittura prende una svolta per ricadere
come un boomerang nel centro esatto. Mi chiama per dirmi che la
sua vita sta cadendo a pezzi e tutto quello che può fare è
cercare di afferrare questa caduta, descriverla come si mostra
davanti ai suoi occhi, palpitante nella punta delle dita come l’argento
vivo nel buio. "Non so scrivere romanzi" si lamenta al
telefono, "ti mando qualcosa da leggere ma non so bene cosa
sia".
Quando ricevo le sue pagine scritte a macchina con cura, sono
affascinata da una scrittura straordinariamente nuda, così
spoglia di abilità formale che mi siedo sul marciapiede davanti
all’ufficio postale per finire. E' come se uno scroscio
pomeridiano abbia benedetto una giornata riarsa, un’ondata di
calore purpureo abbia inondato la terra magra. Mentre lei si
innamora dell’ovest, unico sollievo per il suo cuore infranto,
io mi inebrio dell’intimità e immediatezza della sua emozione
di narratrice, del modo in cui descrive un amore carnale messo ad
asciugare fuori, delle sue caviglie che ingrassano, delle sue
ginocchia cosparse di polvere inquieta. Eppure non so come
chiamarlo, più tardi capirò che ciò che ha scritto è un saggio
personale, un’autobiografia foggiata, divelta dal caos della sua
vita. Quello che mi eccita è che sono pagine che hanno coscienza
di lei come della sua anima, e che sondano nelle profondità del
suo carattere senza finzioni narrative. Non ho mai preso in
considerazione l’idea di scrivere così onestamente, debitamente
attingendo dalla palude erbosa della mia mente, ma in un istante,
ciò che è sempre rimasto inconscio appare cosciente. Vedo
chiaramente come se leggessi nell’aria parole rilucenti: "Raccontare
la tua vita". So, naturalmente, che in una vita non sono
importanti gli eventi ma la loro valutazione, la scaltrezza di
giudizio dello scrittore, il modo in cui è aperta, districata e
rivista la coscienza…il tutto in un desiderio febbrile. E
simultaneamente riconosco che sono una donna schiava del mio
passato, impigliata in una ragnatela culturale, una trappola che
non sono stata capace di risolvere nella narrativa per il semplice
fatto che ho sempre cercato di evitare le opposizioni dentro di
me.
Mi alzo velocemente dal marciapiede ed inizio a camminare. Non ho
nessuna destinazione, nessuna direzione. Sono turbata e allo
stesso tempo frustrata, d’improvviso confusa. Percorro, senza
meta, le strade note che costeggiano l’oceano poi prendo una via
secondaria che porta ad una moltitudine di campi di fiori
selvatici adesso schiusi. Fissando quelle esplosioni di bianco e
porpora, provo a decifrare i frammenti del mio passato. Quello che
vedo è una giovane donna che indossa vestiti alla moda, una
ragazza che ci tiene a rimanere concentrata, su una buona strada,
una ragazza preparata, con voti buoni, appuntamenti per il ballo,
e l’iniziazione alla Società Nazionale d’Onore, accettazione
ad una scuola privata. Per un attimo sono fiera di quella
adolescente, piena di speranza e nostalgia finche, con grande
chiarezza avverto l’imperfezione di questa percezione, la mosca
caduta nell’unguento, la tempesta che si addensa all’orizzonte
della mia mente. Vedo la ragazza che batte i denti, trema dall’ansia,
ed implora di poter rimanere a casa, non andare a scuola. Vedo che
ha paura di essere sconfitta e il timore che batte aritmicamente
all’interno della sua testa come un martello metallico. La
verità è che da adolescente avevo il terrore di fallire ed
evitavo il suo caldo pungiglione tirandomi indietro, chiudendomi
in me stessa, non lasciando entrare molto. Lanciavo sì, tutti i
segnali appropriati per essere parte della mischia, ma in realtà
avevo rinunciato, perso l’anima, e così facendo consumato la
capacità di fare esperienze personali.
Cosi è: una ragazza combattuta, una vita congelata, il seme dell’autobiografia.
Stordita, mi siedo nel bel mezzo del campo, persa nel pensiero. Se
nascondermi è stata per me la prima esperienza importante,
scrivere racconti allora è il primo gesto verso la mia
riscoperta. Inconsapevolmente, scelsi l’unico posto in cui non
avrei potuto nascondermi. Era la prima azione coraggiosa, un atto
di fede, il mio tentativo di scrivere del luogo che mi aveva
strangolata, e, tuttavia, anche qui mi limitai, trovai un lembo
per recitare e mi ci stabilii, opponendomi alle domande mentre
rimanevo insoddisfatta sapendo che i miei racconti non dicevano
ancora tutta la verità. Ora mi è chiaro che mi affidavo ad idee
imposte piuttosto che ad un intuito primitivo, dipendevo da
personaggi tradizionali, strambi e villerecci, presi in prestito
dalla letteratura degli anni ‘20 e ‘30, uomini e donne che non
avevano nessun legame con la mia vita, imitazioni malfatte di
racconti creati da grandi scrittori del Sud. Ero debitrice verso
un luogo ed un tempo ma non ero stata capace di scuotermi di dosso
le mie menzogne. Scrivere narrativa mi avvicinò all’esperienza,
ma mi lasciò timorosa dell’Io.
Dopo avere letto il saggio della mia amica, mi rendo conto che è
solo con la mia coscienza che mi devo confrontare. Forse scrivendo
di me stessa, scoprirò la mia identità. Ma per questo dovrò
trovarmi davanti agli occhi il lato aspro della tristezza nella
mia vita, le lame sottili della rabbia, l’orgoglio inflessibile
e testardo che evoca spesso un silenzio roccioso. Nei miei
racconti ho evitato personaggi tristi, evitato la rabbia e il
disprezzo di sé, le illusioni e nostalgia di quelli che si sono
nascosti da loro stessi. Ma la tristezza è una destinazione che
ogni vita visita necessariamente; ora per la prima volta so che ho
una storia da raccontare. La storia di una finzione, di un
sotterfugio, di una coscienza persa, ritrovata.
Scrivere in modo autobiografico mi permette di aprire un varco all’autocritica,
di investigare le crepe e fessure della mia vita, sbirciando
attraverso il velo scivoloso di ciò che chiamiamo
"carattere" per definire la mia soggettività. Mai come
quando sento aprirsi in me il passato, sono così coinvolta dallo
scrivere, le memorie si ramificano diventando comprensibili come
se d’improvviso una luce bianca illuminasse i tracciati di un
evento. Eppure alcuni scrittori trovano un appiglio nella
protezione, nell’ombra, nel rifugio, altri desiderano solamente
pattinare fino al centro dello stagno, rimanere in equilibrio sul
ghiaccio sottile. C’è qualche cosa incivile in questo
comportamento, qualcosa di primitivo e distruttivo di una mente
che preferisce questo effetto, che preferisce il pericolo forse
soltanto perché il pericolo è una sonda erotica, un rumore
sfuggente. L’attrattiva, naturalmente, è svelare al lettore che
tutti i tabù sono stati infranti, tutte le scommesse giocate: non
ci sarà nessuna deviazione, nessun travestimento, né schermo di
protezione, ma ogni autobiografo sa che questo non è vero del
tutto, perché l’autobiografia è forgiata come qualsiasi altro
genere letterario. E, tuttavia, è vero che l’autobiografia
permette al narratore di fare uno spogliarello che alcuni trovano
eccitante. Incuriosita dal dolore, la mente selvaggia desidera
ardentemente gustare il sapore dell’acciaio nella bocca, il
piacere turbolento del graffio, il morso, la cicatrice, la
consolazione della trasgressione. Potreste considerarlo un
intervento chirurgico fatto su se stessi e allo stesso tempo una
riparazione: una mente selvaggia ha l’ossessione per se stessa e
per le stigmate provocate dalla vergogna, con l’intensità della
nostalgia e, credo, col potenziale calore della catarsi.
II
Ma la catarsi è
il giusto scopo di un’opera letteraria? Non è meglio relegarla
alla terapia? Il desiderio contamina il processo letterario?
Questa controversia infuria nella cultura Americana da quando l’autobiografia,
nella forma di saggio, emerse come genere letterario consistente.
Il dibattito accusa il saggio di essere incentrato, di avere
troppa indulgenza narcisistica, quando quelle stesse idee o
personaggi trasformati in narrativa o poesia potrebbero essere
esteticamente vitali. Io vorrei suggerire un altro argomento a
favore del saggio, un argomento che si basa sulla necessità dello
scrittore contemporaneo di localizzare l’Io in un mondo
transitorio – non solo il mondo politico del ventesimo secolo,
ma il mondo dell’identità personale in conflitto con
cambiamenti costanti. La trama primaria del nostro attuale saggio,
richiede una perdita ed un’estraneità, la separazione dai
parametri della famiglia, della comunità, della religione, e
della cultura. E il protagonista cerca di analizzare non solo
questa perdita ma il complesso di valori ed aspettative che la
accompagnano. Sebbene il mito predominante nel tardo ventesimo
secolo è quello del progresso sociale, economico e politico, l’attuale
saggio suggerisce un antimito di vergogna e disgrazia privata, una
narrativa che collassa e poi si riprende, un desiderio spirituale
di sintesi che resta inesaudito. Spesso nel passato, la narrativa
e la poesia sono state quelle che hanno diagnosticato la storia
nascosta di quei racconti narrati, abbandonati, maltrattati,
scartati e che rispecchiano ciò che siamo e ciò che desideriamo
al di là dei nostri conti in banca e delle nostre dichiarazioni
alla moda. Io credo che una parte integrante della diagnosi dell’Oggi
venga scritta anche attraverso i saggi, i temi autobiografici di
uomini e donne che danno forma ai desideri conflittuali della
memoria.
III
Sembra
inevitabile che prima che inizi la mia odissea autobiografica, io
abbandoni il paesaggio confuso e cosmopolita di Los Angeles per le
fattorie dei pastori dell’Iowa. Nel 1984 attraverso i deserti e
le montagne in macchina per raggiungere una fattoria quadrata tra
i pascoli, una casa a due piani pittoresca e gialla che sembra
essere caduta nel bel mezzo di nessun posto, solo in stretta
compagnia dei campi invernali.
E’ Novembre, i campi sono nudi, il cielo di un grigio gessato ha
una voluta di bianco. Quando guardo il terreno fuori dalla
finestra, i vecchi gambi del granturco sembrano colpiti alle
ginocchia e resi umili, le porte delle capanne sono sprangate
contro i cervi selvatici. Qui non si muove niente eccetto il vento
che batte ed i corvi che volteggiano sopra i fili dell’elettricità.
E, tuttavia, è in un giorno di freddo feroce, che inizio a
scrivere il mio primo saggio personale, seduta nella stanza al
piano di sopra della fattoria, con una benda nera sopra un occhio,
il mio computer appollaiato su un tavolo di fortuna, un materasso
per terra. Avendo preso un’infezione all’occhio mentre
attraversavo il paese in macchina, sono arrivata in questa
fattoria nella provincia dell’Iowa, per rimettermi a lavorare.
Ora mi curvo sopra la tastiera, avvicinandomi eccessivamente
perché la mia prospettiva è obliqua e per cercare di dar forma
alle storie della mia adolescenza, ai principi di panico, all’ambizione
che gela, ad una rabbia sotterranea che non trova la luce. Non ho
mai parlato di questo periodo della mia vita ma mentre scrivo,
sento girare una chiave all’interno del cervello, un fantasma
che mi spalanca completamente, come se una porta fosse scardinata
da un vento che si precipitasse all’interno. Sono stata
accompagnata così poche volte da questa sensazione, che mi sento
trasportata in un’altra esistenza. Le parole largiscono,
scorrono profusamente in frasi, paragrafi, pagine, finché non
rimane altro che il piacevole tremito del polso. I fantasmi del
passato risorgono per chiedere la benedizione e venire quindi
disprezzati; si sistemano come ragazzi insolenti e inquieti, per
poi rinascere. Quando finisco, è molto tardi, il cielo riluce di
stelle. Mi voglio togliere la benda dall’occhio per leggere
quello che ho scritto, ma so che il mio occhio lacrimerà e
trasalirà alla vista della luce. Allora sento abbaiare i cani e
scendo per farli uscire camminando in punta di piedi davanti alla
mia amica che dorme sul divano. E’ bello uscire da sola nella
brezza della notte, con il suo nitido spicchio di vento, la sua
luna preoccupata e magra. Qui tutto è così diverso dal frastuono
vivace di L.A. Al di sopra della capanna, i pipistrelli si
precipitano, si abbassano, ed io mi giro verso quel dito oscuro di
strada che divide il terreno. Con il mio unico occhio buono
accolgo la piena del vuoto. Con il mio unico occhio buono inizio a
distinguere le estremità marcate dei campi, il contorno nitido di
una capanna nella distanza, il guscio ombreggiato di un trattore.
Con il mio unico occhio buono, mi guardo attentamente nel mondo.
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Patricia
Foster insegna "Non-fiction" nel Writer's Workshop
dell'Università dello Iowa e si è dedicata allo studio delle
autobiografie di donne negli USA.
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Copertina
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