NOTIZIE DALL'ALDILA': IL CASO
MACHADO DE ASSIS
Susan Sontag
Un Critico In Libertà
Immaginate uno scrittore che, nel corso della sua lunga vita, non
si allontani mai più di cento chilometri dalla città natia, che
crei un enorme corpus di lavoro - uno scrittore del XIX secolo,
direte subito voi, e a ragione. È l’autore di innumerevoli
romanzi, novelle, racconti, opere teatrali, saggi, poesie,
recensioni, cronache politiche, ed è anche reporter, cronista,
burocrate governativo, candidato a incarichi pubblici, fondatore e
presidente dell’Accademia delle Lettere del suo paese; un
ingegno prodigioso che ha superato difficoltà sociali e fisiche
(mulatto in una terra dove la schiavitù era stata abolita quando
lui aveva già cinquant’anni; e per giunta epilettico). Durante
la sua più che prolifica carriera in patria, riuscì a scrivere
un numero considerevole di romanzi e racconti che meriterebbero un
posto permanente nella letteratura mondiale. I suoi capolavori
sono poco conosciuti e appena menzionati al di fuori del suo
paese, dove invece è venerato come il più grande scrittore.
Immaginate un simile scrittore. È esistito veramente, e i suoi
libri, più che originali, continuano a essere riscoperti ad oltre
ottant’anni dalla sua morte. Di norma il setaccio del tempo è
equo: confuta gli autori di successo, recupera quelli dimenticati,
promuove coloro che sono stati sottovalutati. È dopo la morte di
un grande scrittore che si tirano le fila misteriose che
stabiliscono la sua importanza e la sua immortalità. Forse è
opportuno che questo autore, il quale nel periodo dopo la morte
non ha avuto il riconoscimento che merita, abbia avuto egli stesso
un senso così acuto, ironico e affettuoso del postumo.
Ciò che è vero di una reputazione è vero - o almeno lo dovrebbe
essere - della vita. Poiché è soltanto una vita ormai già
vissuta a rivelare la sua forma e i suoi potenziali significati,
una biografia, per essere definitiva, deve attendere la morte del
suo soggetto. Sfortunatamente, le autobiografie non possono essere
compilate in queste circostanze ideali. In pratica, tutte le
autobiografie romanzate più illustri hanno rispettato i limiti di
quelle reali, mentre tentano di evocare qualcosa di simile a una
conoscenza che è possibile solo dopo la morte. Le autobiografie
romanzate tendono a essere, anche più spesso di quelle vere,
imprese autunnali: un narratore anziano ( o almeno ben stagionato)
si mette a scrivere la sua autobiografia quando si ritira dalla
vita pubblica. Ma anche se la vecchiaia può portare l’autobiografia
romanzata verso un punto di vista ideale, lei o lui si troveranno
pur sempre a scrivere dalla parte sbagliata della frontiera, al di
là della quale una vita, la storia di una vita, acquista un senso
definitivo.
Conosco un solo esempio di
autobiografia immaginaria, un genere affascinante che conferisce
al progetto autobiografico una completezza ideale che, a conti
fatti, è anche comica: il capolavoro dello scrittore brasiliano
Machado de Assis Memorie dell’aldilà (1880). Nel primo
paragrafo del Capitolo I, “Morte dell’autore”, il narratore
Biagio Cubas annuncia allegramente, “Io non sono veramente un
autore defunto, ma un defunto autore”. Questa è la battuta che
fa da cornice alla composizione del romanzo ed essa si riferisce
alla libertà dello scrittore. Il lettore è invitato a
partecipare al gioco secondo cui il libro in questione è una
prodezza letteraria senza precedenti: memorie postume scritte in
prima persona.
Naturalmente, neppure un solo giorno, tantomeno una vita, può
essere narrato nella sua interezza.
La vita non è un intreccio romanzesco. E una concezione molto
diversa dello stile si applica a un resoconto costruito in prima
persona oppure a uno in terza persona. Rallentare, accelerare,
saltare interi periodi; commentare a lungo, non commentare, fare
tutto ciò come io narrante conferisce un peso e un’atmosfera
diversi rispetto a quando si raccontano le vicende di un’altra
persona o al suo posto. Molto di quello che appare commovente o
giustificabile o insopportabile in prima persona acquisterebbe il
significato opposto in terza persona, e viceversa: un’osservazione
facilmente confermata se si legge ad alta voce qualsiasi pagina di
questo libro prima com’è, e poi mettendo “egli” al posto di
“io” (per saggiare la spietata differenza all’interno dei
codici che regolano la terza persona, provate poi a sostituire “lei”
al posto di “lui”). Vi sono registri di emozioni come l’ansia,
che possono essere captati soltanto da un io narrante. Questo vale
anche per molti aspetti della resa narrativa: la digressione, per
esempio, sembra naturale in un testo scritto in prima persona, ma
dilettantesca se usata da una voce impersonale in terza persona.
Pertanto, ogni genere di scrittura che presuppone una
consapevolezza dei suoi stessi espedienti e dei suoi stessi metodi
dovrebbe essere intesa in prima persona, a prescindere dal fatto
che il pronome principale sia “io”.
Un tempo, scrivere di sé, raccontare la verità, cioè la propria
storia privata, era ritenuto presuntuoso e andava giustificato, I Saggi
di Montaigne, Le confessioni di Rousseau, Walden di
Thoreau e molte delle altre autobiografie classiche, cariche di
implicazioni spirituali, hanno un prologo dove l’autore si
rivolge direttamente al lettore per sottolineare l’audacia dell’impresa,
per evocare scrupoli o inibizioni (modestia, ansia), che hanno
dovuto essere superati per ribadire una spontaneità o un candore
esemplari, per asserire di fronte agli altri l’utilità di una
scrittura così egocentrica. Alla stregua delle vere
autobiografie, la maggior parte di quelle romanzate, qualunque
stile e complessità esse abbiano, comincia con una spiegazione,
di natura difensiva o provocatoria, sulla decisione di scrivere il
libro che il lettore ha appena iniziato oppure comincia almeno con
un tono di deprecazione che attribuisce l’egoismo a una
sensibilità seducente. Non si tratta di un esordio di
circostanza, di frasi gentili per dare al lettore il tempo di
mettersi a suo agio. È il primo colpo sparato in una battaglia
rivolta a sedurre il lettore, attraverso cui colui che scrive
ammette implicitamente il fatto che vi sia qualcosa di
sconveniente, di sfrontato nella volontà di scrivere
profusamente di sé, nell’esporsi a un pubblico ignoto senza la
giustificazione di una grande carriera o di un grave delitto, o
senza alcun artificio di tipo documentario, come quello di fingere
che il libro sia solo la compilazione di carteggi privati, come
diari o lettere, le indiscrezioni in origine destinate a pochi
intimi. Volendo offrirsi di getto in prima persona un gran numero
di lettori (a un “pubblico”), chi racconta deve almeno
chiedere con accortezza e gentilezza il permesso di iniziare. Il
magnifico artifizio del volume di Machado de Assis, il fatto che
si tratta delle memorie scritte da un defunto, dà un altro giro
di vite con il proposito di regolare meglio i pensieri del
lettore. In questo modo lo scrittore può dichiarare il suo
distacco.
Comunque, scrivere dall’aldilà non ha impedito all’io
narrante di mostrare una dose cospicua d’interesse per la
ricezione della sua opera. La sua ansia simulata è incorporata
nella forma stessa e nell’agilità caratteristica del libro.
Essa si trova nel modo in cui il racconto è strutturato e
montato, con ritmo irregolare: centosessanta capitoli, molti dei
quali composti da appena due frasi, alcuni non più lunghi di due
pagine; è insita nelle indicazioni giocose, di solito situate all’inizio
o alla fine dei capitoli, che permettono l’uso migliore del
testo. “Conviene intercalare questo capitolo tra la prima frase
e la seconda del capitolo CXXIX”; “Ma questo capitolo non è
serio”; “Non ci facciamo coinvolgere dalla psicologia” e
così via. Essa si trova nell’attenzione ironica che scandisce
gli espedienti e i metodi del libro, nel rifiuto insistente di
coinvolgere le emozioni del lettore: “Amo i capitoli allegri”.
Chiedere al lettore di condividere il vezzo del narratore per i
suoi atteggiamenti frivoli è una tattica altrettanto seducente
della promessa di fornirgli forti emozioni e nuove conoscenze. Le
soavi smancerie dello scrittore sulla precisione dei suoi
procedimenti narrativi fanno il verso al suo smisurato
egocentrismo.
La digressione è l’espediente tecnico principale che controlla
il flusso emotivo del libro. Il narratore, che ha la testa piena
di letteratura, si mostra competente nelle descrizioni, secondo i
canoni esaltati dal realismo, che registrano il modo in cui i
sentimenti intensi perdurano, cambiano, si evolvono, si
trasmettono. Inoltre, egli si mostra anche ovviamente lontano da
tali preoccupazioni a causa delle proporzioni della narrazione:
“taglia” l’autobiografia in brevi episodi, guarda dall’alto
con ironia e didatticismo. Questa voce stranamente crudele,
apertamente disincantata (d’altronde come dovrebbe essere la
voce di un narratore defunto?), non riferisce mai un evento senza
trarne un insegnamento. Il Capitolo CXXXIII inizia, “...e qui
correggo io il principio di Helvetius - o, meglio, lo spiego”.
Mentre chiede indulgenza al lettore, mentre si preoccupa della sua
concentrazione (Ha capito il lettore? Si è divertito? Non si
annoia?), lo scrittore si allontana continuamente dall’autobiografia
per sostenere una teoria, per formulare la sua opinione su di essa
come se questi espedienti fossero necessari per rendere il
racconto più interessante. L’esistenza socialmente
privilegiata, piena di sé, di Biagio Cubas è, come lo è spesso
una vita del genere, monotona e grigia; gli avvenimenti principali
sono quelli che non sono accaduti o che sono stati giudicati
deludenti. L’abbondanza di opinioni argute smaschera la povertà
emotiva della sua vita esibendo un narratore che si mostra schivo
nel trarre conclusioni che sarebbero logiche. L’uso metodico
delle digressioni genera anche gran parte della comicità del
libro, a partire dalla stessa discrepanza tra la vita descritta,
povera di avvenimenti, ma articolata con sottigliezza, e le teorie
evocate, che sono straordinarie, audaci.
Naturalmente La vita e le opinioni di Tristram Shandy è il
modello principale alla base dei procedimenti saporiti che danno
consapevolezza al fruitore. La scelta di capitoli minuscoli e
anche alcune delle trovate tipografiche, come nel Capitolo LV (“L’antico
dialogo di Adamo ed Eva”) e nel Capitolo CXXXIX (“Come non
diventai Ministro”) richiamano i ritmi narrativi bizzarri e le
arguzie pittografiche di Tristran Shandy. Anche il fatto
che Biagio Cubas cominci la sua storia dopo essere morto (come Tristran
Shandy, che inizia splendidamente con la storia della sua
consapevolezza prima di nascere, nel momento del concepimento),
sembra un omaggio di Machado de Assis a Sterne. Non dovrebbe
sorprenderci l’autorità che Tristran Shandy, pubblicato
a puntate tra il 1759 e il 1767, esercitò su uno scrittore nato
in Brasile nel XIX secolo. Mentre i romanzi di Sterne, così
celebrati nel corso della sua vita e subito dopo la sua morte,
venivano riconsiderati in Inghilterra stravaganti, talvolta
indecenti, e in definitiva noiosi, essi continuarono a godere di
grande ammirazione sul continente europeo. Nelle culture di lingua
inglese, dove Sterne, in questo secolo, è di nuovo in auge, egli
viene ancora reputato un genio super eccentrico, marginale (come
Blake), famoso per essere “moderno” in modo incredibile e in
anticipo sui tempi. Tuttavia, quando lo si esamina nella
prospettiva della letteratura mondiale, può essere considerato lo
scrittore di lingua inglese più influente dopo Shakespeare e
Dickens. Che Nietzsche abbia affermato che il suo romanzo
preferito fosse Tristran Sandy non è un giudizio originale
quanto sembra. Sterne è stato una presenza assai forte nelle
letterature slave, come si vede dalla centralità dell’esempio
di Tristran Shandy nelle teorie di Šklovsky e di altri
formalisti russi, a partire dal 1920 in poi. Forse il motivo per
cui tanta letteratura autorevole in prosa viene pubblicata da
decenni nell’Europa centrale e orientale come nell’America
Latina, non dipende solo dal fatto che questi scrittori hanno
sopportato tirannie mostruose e perciò è stata loro attribuita
importanza, serietà, argomenti e grande ironia (come è stato
constatato, non senza invidia, da molti scrittori dell’Europa
occidentale e degli Stati Uniti), ma anche perché queste sono le
parti del mondo dove da più di un secolo l’autore di Tristran
Shandy è il più ammirato.
Il romanzo di Machado de Assis appartiene a quella tradizione di
buffonerie narrative - la loquace voce narrante in prima persona
che tenta di ingraziarsi i lettori - che parte da Sterne e, nel
nostro secolo, arriva a Io sono un gatto di Sõseki Natsume,
ai racconti di Robert Walser, a La coscienza di Zeno e Senilità
di Svevo, a Tristezza per la bellezza di Hrabal e a molte
opere di Beckett. Incontriamo una volta dopo l’altra, in forme
diverse, il narratore chiacchierone, tortuoso, ossessivamente
speculativo ed eccentrico: solitario (per scelta o per vocazione);
incline a ossessioni futili e a teorie fantasiose, a grandi sforzi
di volontà con finalità comiche; spesso autodidatta; non proprio
un impostore; anche se talvolta spinto dalla libidine e una volta
almeno dall’amore, incapace di accoppiarsi; di solito
anzianotto; in ogni circostanza un maschio. Non c’è donna che
possa riscuotere neppure la simpatia di riflesso che questi
narratori rabbiosamente egocentrici pretendono da noi, perché ci
si aspetta che le donne siano più comprensive e accondiscendenti
degli uomini; una donna con lo stesso grado di acume mentale e di
distacco emotivo sarebbe vista solo come un mostro. Il malaticcio
Biagio Cubas di Machado de Assis è di gran lunga meno esuberante
di quel chiacchierone scavezzacollo di Tristram Shandy. Il
personaggio di Sterne non si scosta di molto dal sarcasmo espresso
dal narratore di Machado, con la sua amara superiorità verso la
storia della sua vita, verso il malessere sull’intreccio
caratteristico di molta narrativa recente in forma autobiografica.
Ma la mancanza di trama può essere intrinseca al genere - il
romanzo come monologo autobiografico; lo stesso vale per l’isolamento
della voce narrante. In questo senso un antieroe poststerneiano
come Biagio Cubas fa la parodia al protagonista delle grandi
autobiografie spirituali, il quale è sempre, e non solo per caso,
visceralmente celibe. È quasi una costante dell’ambizione che
plasma la narrativa autobiografica: il narratore deve essere o
deve essere rimodellato come un individuo solitario, certamente
senza consorte, anche quando lei o lui esistono; al centro la vita
deve essere spopolata. Così, recenti autobiografie spirituali di
successo in veste di romanzo come Sleepless Nights (Notti
insonni) di Elisabeth Hardwick e L’enigma dell’arrivo di
V.S. Naipaul non menzionano la loro metà effettivamente
esistente. Quindi, nello stesso modo in cui l’isolamento di
Biagio Cubas è la parodia di una solitudine scelta o emblematica,
così la sua liberazione attraverso la comprensione di sé è,
nonostante la riflessione interiore e l’arguzia, una parodia di
quel trionfo.
La seduzione di una narrativa del genere è complessa: il
narratore dichiara di preoccuparsi del lettore: il lettore ci
arriva? Intanto, il lettore si interroga sul narratore: il
narratore comprende tutte le implicazioni di quanto viene
raccontato? Uno sfoggio di agilità mentale e di capacità
inventiva, finalizzato a dilettare il lettore e che riflette di
proposito la mente fervida del narratore, misura invece l’isolamento
e il senso di abbandono emotivo del narratore. Il romanzo di
Machado è esplicitamente il libro di una vita. Tuttavia,
nonostante il talento del narratore nel fornire un ritratto
sociale e psicologico, esso rimane un viaggio all’interno di una
mente. Un altro modello di Machado è stato un libro straordinario
di Xavier de Maistre, un aristocratico francese esule che
trascorse gran parte della sua lunga vita in Russia. De Maistre è
l’inventore del microviaggio letterario con il suo Viaggio
intorno alla mia camera, scritto nel 1794, quando egli era in
prigione dopo un duello, in cui narra le sue visite in diagonale e
a zigzag verso luoghi così diversi come la poltrona, lo scrittoio
e il letto. Una reclusione, mentale o fisica, che non viene
percepita come tale, può diventare una storia molto divertente
oppure un racconto carico di pathos.
All’inizio del libro, in uno sfoggio di autocoscienza autoriale
che si degna di includere il lettore, Machado de Assis fa elencare
al suo autore il nome dei modelli letterari del XVIII secolo, che
hanno influenzato la sua scrittura, con il seguente cupo avviso:
Si tratta, invero, di un’opera estesa, nella quale io, Biagio
Cubas, pur adottando la forma libera di uno Sterne o di uno Xavier
de Maistre, ho forse aggiunto un umore pessimistico. Può darsi.
Opera di un morto: l’ho scritto con la penna della facezia e l’inchiostro
della malinconia, e non è difficile prevedere il risultato di
questo connubio.
Una vena di autentica misantropia scorre attraverso il libro,
seppure modulata dalla fantasia bizzarra dello scrittore. Se
Biagio Cubas non è soltanto l’ennesimo narratore celibe
represso, sterile, inutilmente autoconsapevole che esiste
esclusivamente per essere indagato dal lettore vigoroso, ciò
deriva dalla sua rabbia che alla fine del libro trabocca:
dolorosa, amara, sconvolgente.
La giocosità di Sterne è a cuor leggero. Egli stabilisce una
forma di amicizia comica, sebbene carica di tensione, con il
lettore. Nel XIX secolo la digressione, il chiacchiericcio, l’amore
per il ragionamento cavilloso, il piroettare da una forma
narrativa all’altra assumono tinte più cupe. Vengono a
coincidere con l’ipocondria, con la disillusione erotica, con il
malcontento dell’io (l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij,
patologicamente ciarliero), con un’acuta sofferenza mentale (il
narratore isterico, sconvolto dall’ingiustizia, di Multatuli in Max
Havelaar). Il parlottio ossessivo e ripetitivo soleva essere
una risorsa della commedia (basti pensare ai brontoloni plebei di
Shakespeare, come il guardiano in Macbeth; o anche fra le
tante invenzioni di Dickens, a Pickwick). L’uso comico della
loquacità non scompare. Joyce si servì della loquacità con
spirito rabelaisiano, come veicolo di iperbole comica e Gertrud
Stein, campionessa di scrittura prolissa, trasformò i tic dell’egoismo
e della sentenziosità in una voce comica benevola di grande
originalità. Ma la maggior parte dei narratori verbosi in prima
persona nella letteratura ambiziosa di questo secolo sono stati
dei grandi misantropi. La loquacità si identifica con la
ripetitività lamentosa e dolente della senilità (i monologhi in
prosa che Beckett definì i suoi romanzi) e con la paranoia e la
collera implacabile (i romanzi e i drammi di Thomas Bernhard). Chi
non percepisce la disperazione dietro le vivaci e garrule
meditazioni di Robert Walser e le voci erudite, strambe e beffarde
che appaiono nei racconti di Donald Barthelme ?
I narratori di Beckett di solito cercano di immaginare, senza
riuscirvi, di essere morti. Biagio Cubas non ha un problema del
genere. Ma d’altra parte Machado de Assis cercava di essere, ed
è, divertente. Non vi è nulla di morboso nella consapevolezza
del suo narratore postumo; al contrario, la prospettiva della
consapevolezza spinta al massimo, che argutamente può rivendicare
un narratore postumo, è una prospettiva comica. Biagio Cubas non
scrive da un aldilà reale, non ha collocazione, si tratta solo di
un altro espediente per ottenere un distacco autoriale. Le
spiritosaggini neosterneiane di questi ricordi di un uomo deluso
non derivano dall’esuberanza e neppure dall’eccitazione
nervosa del linguaggio di Sterne. Esse sono una sorta di antidoto,
una controspinta allo sconforto del narratore: un modo per
dominare la depressione assai più specifico di “un medicamento
sublime, un balsamo antipocondriaco, destinato a recar sollievo
alla nostra malinconica umanità” che il narratore fantastica di
aver inventato. La vita impartisce dure lezioni. Ma si può
scrivere come si vuole: ecco una forma di libertà.
Machado de Assis aveva solo quarantun’anni quando pubblicò le
reminiscenze di un uomo che era morto all’età di
sessantaquattro anni, come si può apprendere all’inizio del
libro. Egli nacque nel 1839; la sua creazione, Biagio Cubas,
autore dell’autobiografia postuma, appartiene alla generazione
precedente, nasce nel 1805. Il romanzo come esercizio di
anticipazione della vecchiaia è un’impresa da cui gli scrittori
di temperamento malinconico continuano a essere attratti. Non
avevo ancora trent’anni quando scrissi il mio primo romanzo, Il
Benefattore, che parla dei ricordi di un uomo sulla
sessantina, che vive di rendita, appassionato del bello e artista,
che annuncia all’inizio del volume di aver raggiunto il porto
della serenità dove, esaurita ogni esperienza, può volgere lo
sguardo indietro alla sua vita. I pochi riferimenti letterari
consapevoli nella mia mente erano per lo più francesi,
soprattutto Candide e le Meditazioni di Cartesio. Mi
sembrava di scrivere una satira sull’ottimismo e su certe idee
(da me) nutrite sulla vita interiore e su una interiorità
alimentata dalla religione. Ciò che mi accadeva inconsapevolmente
è, ripensandoci ora, un’altra storia. Dopo che ebbi la fortuna
di vedere Il Benefattore accettato dal primo editore a cui
lo avevo sottoposto - Farrar, Straus - ebbi l’ulteriore fortuna
di essere affidata a Cecil Hamley che, nel 1952, nella sua
precedente incarnazione in qualità di capo della Noonday Press
(recentemente acquistata dal mio nuovo editore), aveva pubblicato
la traduzione del romanzo di Machado (a cura di William L.
Grossman), che segnò il lancio del volume in inglese. Durante il
nostro primo incontro Hamley mi disse qualcosa di abbastanza
plausibile, “Vedo che sei stata influenzata da Memorie dell’aldilà”.
Memorie di cosa...? “Sai, il libro di Machado de
Assis.” “Chi?” Mi prestò la sua copia e parecchi giorni
dopo mi dichiarai influenzata con effetto retroattivo.
Anche se da allora ho letto parecchie opere di Machado in
traduzione, questo libro - il primo dei suoi ultimi cinque romanzi
(visse altri ventotto anni dopo averlo scritto), quello che di
solito viene citato come la massima espressione del suo genio -
rimane il mio preferito. Mi è stato detto che Memorie dell’aldilà
è il romanzo prediletto dai non brasiliani, sebbene i critici
di solito scelgano Don Casmurro (1899). Sono stupita che
uno scrittore di siffatta grandezza non occupi ancora il posto che
merita. Fino a un certo punto, il parziale oblio di Machado fuori
dal Brasile non deve sorprendere più della sorte di un altro
scrittore prolifico di genio, Šoseki Natsume. Senza dubbio,
Machado sarebbe più noto se non fosse stato brasiliano e se non
avesse trascorso tutta la vita a Rio de Janeiro. Se fosse stato,
diciamo, italiano o russo o perfino portoghese. Ma la difficoltà
non scaturisce soltanto dal fatto che Machado non fu uno scrittore
europeo. Ancor più notevole della sua assenza dal panorama della
letteratura mondiale è il fatto che egli sia stato molto poco
conosciuto e letto nel resto dell’America Latina, come se fosse
tuttora difficile da digerire che il maggior autore prodotto dall’America
Latina abbia scritto in portoghese e non in spagnolo. Il Brasile
è la nazione più estesa del continente (e nel XIX secolo, Rio è
la città più grande), ma è sempre stato considerato il paese
estraneo, giudicato dal resto dell’America del Sud che parla lo
spagnolo, con una buona dose di condiscendenza e perfino di
razzismo. Uno scrittore proveniente da uno di questi paesi molto
probabilmente conosce ogni letteratura europea o ogni letteratura
in lingua inglese più di quella brasiliana, mentre gli scrittori
brasiliani non ignorano affatto la letteratura ispano-americana.
Pare che Borges, il secondo più grande scrittore prodotto dall’America
Latina, non abbia mai letto Machado de Assis. Invero, Machado è
ancor meno conosciuto dai lettori di lingua spagnola che da quelli
che lo hanno letto in inglese. Memorie dell’aldilà è
stato tradotto in spagnolo solo negli anni Sessanta, circa ottant’anni
dopo la sua pubblicazione e un decennio dopo la seconda traduzione
in inglese.
Un grande libro trova la sua giusta collocazione a tempo debito,
dopo un certo periodo dalla morte dell’autore. E forse alcune
opere hanno bisogno di essere riscoperte più di una volta. Memorie
dell’aldilà è probabilmente uno di quei libri originali ed
eccitanti di un radicale scetticismo che lasceranno sempre un’impronta
sui lettori con la forza di una scoperta privata. Non sembra
davvero un complimento dire che questo romanzo, scritto più di un
secolo fa, sembra - ebbene sì - moderno. Non tendiamo forse ad
annoverare ogni opera che ci parla con originalità e lucidità
tra la letteratura che noi consideriamo moderna? I nostri
parametri di modernità sono un sistema di illusione gratificanti,
che ci consentono di colonizzare il passato a nostro piacimento.
La stessa cosa vale della nostra idea di ciò che è provinciale,
che permette a certe parti del mondo di trattare con
condiscendenza tutto il resto. In questo caso, il fatto che l’autore
sia morto, rappresenta un punto di vista che non può essere
accusato di provincialismo. Di sicuro Memorie dall’aldilà
è uno dei libri più divertenti e non provinciali che mai sia
stato scritto. E amare questo libro significa avere un rapporto
meno provinciale con la letteratura.
(traduzione di
Oriana Palusci)
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