AFERDITA
Susi Menazza
Per
qualche ignota ragione il fato, il destino o chi per esso ha
smesso molto tempo fa di soddisfare I miei desideri quando
opportunamente espressi. Come un amico noioso che continua a
scherzare anche quando non ride più nessuno il fato, il destino o
chi per esso ha deciso di prendermi in giro quando non ne ho
voglia. In linea di principio devo ammettere che soddisfa quasi
tutte le mie richieste. I tempi purtroppo li stabilisce lui. Non
ho mai ottenuto un lavoro quando lo stavo cercando e soprattutto
non ho mai ottenuto IL lavoro che stavo cercando nel momento in
cui lo cercavo. A me le offerte di lavoro, come I soldi e I
fidanzati (tanto tempo fa…) sono capitati sempre nel momento in
cui volevo qualcos’altro. Dopo attente autoanalisi mi sono
convinta di aver ben poca voce in capitolo e mi sono arresa alla
certezza che questo sia comunque il prezzo da pagare per avere
avuto quasi tutto quello che volevo.
E devo dire che non sarebbe un grande dramma se mi succedesse di
tanto in tanto, ma ormai il trend sta diventando una costante a
cui non sfugge neanche un’eccezione. In Kosovo la cosa si sta
ormai trasformando in un incubo. Non c’è una volta che dopo 90
km di strada trovi al supermercato le patatine che sogno da una
settimana. E non c’è stato meeting circondato da grandi
aspettative che non si sia rivelato un mezzo fallimento. Non c’è
serata in cui non ho voglia di cucinare che qualcuno abbia voglia
di andare al ristorante. E, soprattutto, di sicuro il giorno che
sogno di svuotare il boiler per un lungo e caldissimo bagno è
anche il primo da settimane che manca l’acqua.
D’altra parte il rovescio della medaglia chiamiamolo così è
che in fondo tutto succede quando meno te lo aspetti. E non è
poco… In fondo ci sono poche cose migliori del restare stupiti.
Soluzioni improvvise capitate incontrando qualcuno per caso. O l’incontro
inatteso con una di quelle rare persone che hanno qualcosa di
interessante da dire e che soprattutto hanno un modo unico e
prezioso di mettere in fila le parole.
Una mattina di qualche settimana fa un collega mi ha invitato a
mangiare pesce a casa sua. Era riuscito a procurarsi delle trote
freschissime da un allevamento su in montagna e la sua ragazza
aveva deciso di cucinare per qualche amico. Era una di quelle cose
arrangiate all’ultimo momento che prometteva bene, anche perchè
lei a 23 anni aveva attraversato l’Atlantico da sola in barca a
vela e passava per una che il pesce sa come cucinarlo. Le cose
però si erano messe subito male: il training che ci aveva
impegnati tutto il giorno era durato molto più del previsto e si
era rivelato quantomeno un’inutile perdita di tempo, mentre un’infinita
serie di problemi e di malintesi ci aveva costretti a girare per
Mitrovica con le trote al seguito fino alle 9 di sera. Proprio
quando la stanchezza e l’impazienza mi stavano facendo fare
retromarcia fino a casa tutto si era improvvisamente risolto e io
mi ero ritrovata seduta in soggiorno con un aperitivo
improvvisato in mano e qualcuno che trafficava in cucina.
È stato a quel punto che l’inatteso ha fatto capolino. Devo
confessare che anche se normalmente giustifico la mia riluttanza
alla vita mondana kosovara con il coprifuoco, in realtà spesso e
volentieri rifuggo amici e colleghi. Questi ultimi perchè nove
volte su dieci parliamo di lavoro e la volta che rimane parliamo
male di tutto quello che ci circonda. Gli amici dello staff locale
perchè dieci volte su dieci qualunque sia l’argomento di
partenza (il calcio come la ricetta per fare le lasagne) finiscono
per dirti quanto bastardi insensibili falsi bugiardi e criminali
siano quelli appartenenti a qualunque altro gruppo etnico in
Kosovo. Esco da questi incontri frustrata, nervosa e decisa a non
cascarci più, proposito che rimane incollabile per un paio di
giorni e poi sparisce misteriosamente.
Quella sera, aspettando che il pesce cuocesse, avevo iniziato a
chiacchierare con un’altra ospite. Aferdita un nome albanese
piuttosto comune in Kosovo, che in me ha però sempre evocato
visioni di goliardici déi greci la conoscevo già per averla
incontrata varie volte nell’ufficio della ragazza del mio
collega, di cui è l’assistente. Le prime, banali chiacchiere
erano come sempre sfociate in domande sulla parte della città in
cui viviamo. Mitrovica Nord e Mitrovica Sud non sono semplicemente
“la parte serba” e “la parte albanese”. Sono due mondi
governati da diverse amministrazioni, regolati da leggi diverse,
dove si paga in moneta diversa e a seconda del gruppo di
appartenenza si rischia la pelle.
“Vivo a Mitrovica Nord, ci sono rimasta per tutta la guerra,
sono stata tra I pochi a non scappare”. Avevo sospirato ho
grande rispetto per la sofferenza che questa gente ha provato, ma
qualche volta le loro infinite descrizioni della guerra mi
sfiniscono e avevo cercato di cavarmela con una frase di
circostanza.
“Beh, non deve essere stato facile per un’albanese come te”.
Lei aveva sorriso.
“A dire la verità io non sono proprio albanese”.
E aveva iniziato a raccontare della sua vita. Con voce dolce e
pacata, perfetta per quel suo fisico minuto e I modi sempre
controllati, e in un inglese scorrevole aveva iniziato a narrare
come un vecchio cantastorie. Dimenticati aperitivo, pesce in forno
e soprattutto padroni di casa ero stata silenziosamente ad
ascoltare la sua incredibile storia.
Il padre e la madre si erano conosciuti giovanissimi a Mitrovica
proprio poco prima della partenza di lui per il lungo servizio
militare previsto dal regime comunista. Alla tristezza per la
lunga separazione si era aggiunto dopo qualche mese lo shock della
scoperta di essere in attesa di un figlio. Alla giovane età, alla
lontananza e alla drammaticità di un figlio in arrivo dopo pochi
incontri si aggiungeva lo scandalo di una relazione interetnica.
Il padre infatti è albanese, ma la madre è serba. Le coppie
miste ci sono sempre state perfino qui, ma di certo il controllo
opprimente e privo di mezze misure della comunità di appartenenza
non ha mai favorito il romanticismo di quanti per amore hanno
scavalcato le grandi barriere della lingua e della religione.
Quando il giovane padre era ancora lontano era nata una bambina la
sorella di Aferdita e le infrangibili leggi sociali non avevano
lasciato scelta alla madre: vista l’assenza di un risolutore e
convenzionale contratto matrimoniale tra I due, alla bimba era
stato dato un nome serbo. Il cognome naturalmente non poteva che
essere quello dell’unico genitore certo. Ma la certezza del
parentado materno che il solito inaffidabile albanese non si
sarebbe mai assunto la responsabilità delle sue insensate azioni
era stata clamorosamente contraddetta dalla determinazione del
ragazzo, che una volta finita la naia se ne era tornato
immediatamente dalla sua bella e l’aveva risolutamente portata
davanti all’altare.
Una volta formata la famiglia aveva continuato l’opera iniziata,
mettendo al mondo altri tre figli, tra cui Aferdita. Anche questa
volta tuttavia le convenzioni sociali avevano dettato le regole e
a questi tre bambini era stato dato un nome e ovviamente un
cognome albanese. A parte l’anomalia di un figlio con un diverso
nome vani erano stati I tentativi di cambiarlo la famiglia si
confondeva con tutte le altre famiglie. Tuttavia la madre e la sua
origine serba hanno reso unica l’educazione di Aferdita e dei
suoi fratelli. Cresciuti parlando serbo in casa, educati in scuole
serbe, hanno acquisito un’impostazione europea, un rigore di
solito assenti tra gli albanesi. Le due sorelle, unitissime sin da
piccole, hanno sempre condiviso tutto, creando un legame che
resiste tuttora. Da sempre molto più serba che albanese
Aferdita aveva tuttavia stupito tutti innamorandosi e sposando un
albanese. La sorella invece, aveva optato per un serbo. Le
comunità sempre pronte alla critica quella volta avevano
glissato: I loro nomi, molto più della cultura, della lingua e
dell’educazione, avevano giustificato e convalidato la scelta.
Passano gli anni, nascono I bambini. Quelli di Aferdita solo due
in una cultura che ne esige il maggior numero possibile parlano
entrambe le lingue, e l’eredità della nonna materna lascia il
segno anche con loro: la madre li educa alla maniera serba e li
cresce con un’impostazione lontana dalla tradizione
musulmano-albanese.
Saranno l’odio etnico e la guerra a dividere una famiglia che
aveva voluto rimanere unita malgrado la disapprovazione altrui. Le
sorelle indivisibili saranno divise. Non da un confine o da un
muro, ma da un nome… In una città come Mitrovica dove le coppie
miste si contavano sulle dita di una mano e dove tutti conoscono
la loro storia nessuno ha voluto vedere oltre l’evidenza: I loro
nomi le hanno poste su parti opposte della barricata, rendendo
vani tutti I tentativi di restare unite. Gli ultimi dieci
difficili anni dall’ascesa di Milosevic hanno creato un fossato
attorno alle due sorelle. Aferdita come migliaia di albanesi ha
perso il posto di dirigente e ha fatto la commessa in un negozio
serbo per anni con uno stipendio da fame, mentre la sorella godeva
I privilegi della sua “serbicità”. Il legame e l’affetto
tuttavia non sono mai venuti meno. Immutati. Durante la guerra
Aferdita è stata costretta a lasciare la parte serba della città
e, anche se ora risiede in uno dei due quartieri albanesi ancora
esistenti nella zona Nord, non ha la minima possibilità di andare
dalla sorella senza essere aggredita, picchiata o peggio uccisa.
Trecento pericolosissimi metri la dividono dalla sorella. Trecento
metri di odio che non la riguardano, ma che la condannato alla
lontananza. Il suo vecchio mondo è stato stravolto. I vecchi
vicini di casa condannano lei e I fratelli come traditori e I
compagni di scuola negano di averla frequentata.
Con la fine dei bombardamenti la situazione si è tuttavia
capovolta. I serbi hanno perso la guerra e sono diventati la
minoranza debole e perseguitata in tutto il Kosovo eccetto che a
Mitrovica Nord, roccaforte protetta ad ogni costo con metodi che
non lasciano spazio alla tolleranza e al dialogo. Alla fine della
guerra i contatti tra le sorelle si erano ristabiliti tra le mille
difficoltà disseminate dalle atrocità commesse, mentre entrambe
cercavano di provvedere alle famiglie. Nonostante il buon inglese
e un titolo universitario Aferdita non aveva trovato di meglio che
fare le pulizie per una organizzazione internazionale. Portava a
casa di che mangiare e si considerava fortunata.
Ma il destino, il fato o chi per esso ha deciso di giocare anche
con lei, perchè l’incontro che le ha cambiato la vita è giunto
inatteso. Non cercato. Ed è giunto in mezzo ad una strada. Eh si,
perchè può anche succedere che pochi giorni dopo la fine dei
bombardamenti, tra macerie, fame e disperazione una piccola donna
delle pulizie albanese incontri in mezzo alla strada una giovane
ragazza francese che senza interprete se ne va in giro chiedendo
informazioni in inglese. E può anche succedere che la ragazza
francese rimanga colpita dalla dignità, dalla cortesia e
soprattutto dell’ottimo inglese di questa piccola albanese e che
le chieda così, seguendo l’istinto e l’ispirazione di andare
a lavorare per lei. E, incredibile ma vero, può anche succedere
che la giovane ragazza francese la stessa che sta cucinando il
pesce sia responsabile dell’Agenzia delle Nazioni Unite che si
occupa della distribuzione di cibo durante le emergenze.
Sono passati molti mesi da quell’incontro. Quasi un anno. La
piccola donna albanese ha rispolverato la sua impostazione serba,
con il suo rigore e la sua affidabilità, ed è diventata la
responsabile locale della distribuzione di cibo per l’intera
regione, il braccio destro della giovane ragazza francese. La sua
bravura hanno portato le Nazioni Unite a sostenere il suo
desiderio di continuare a lavorare per la stessa Agenzia in altre
missioni. Partirà, molto probabilmente, quando il
programma-Kosovo chiuderà I battenti dell’emergenza cibo per
dare spazio a chi si occupa di sviluppo. Potrà viaggiare,
guadagnare, pagare studi di qualità ai suoi figli. Ma il mondo
che le si é spalancato davanti non comprende quei maledetti
trecento metri che hanno disgregato la sua famiglia…
Susi Menazza, sono nata a Jesolo
nel 1970. Dopo la laurea in Scienze
Politiche a Padova un anno a Nairobi collaborando con Alex
Zanotelli.
Dall'ottobre del 1999 sono a Mitrovica in Kosovo, come
Democratization
Officer dell'OCSE.
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